Negli anni del regime fascista furono diversi i castelli che, già divenuti sede di istituzioni locali durante il periodo unitario, vennero sottoposti a interventi finalizzati a valorizzare la politica del regime, seguendone le variazioni di orientamento – e con quelle le mutazioni del gusto.
Nel 1926 il castello di Lugo divenne sede del museo dedicato al lughese Francesco Baracca, eroe della prima guerra mondiale, in ambienti decorati in stile neorinascimentale con episodi delle imprese dell’aviatore.
A Ferrara il recupero del castello, la cui saletta dei Veleni fu affrescata a metà anni Venti con un ritratto di Balbo, fu l’atto inaugurale della riscoperta della città estense, con il fine anche di propagandare la ‘addizione novecentista’ che doveva colmare con moderne strutture di servizio l’enorme ‘spianata’ creata nell’Ottocento dalla demolizione della fortezza papale nel comparto urbano orientale.
Negli anni Trenta il clima prebellico trovò eco nel castello Scotti di Carpaneto, decorato con aereopitture sui temi della guerra e dell’industria del piacentino BOT Barbieri Oswaldo Terribile e in seguito con dipinti che celebravano l’Impero e la Donna Italica.
L’uso politico del fascino storico dei castelli – e la loro monumentalizzazione – ebbe però il suo esempio più eclatante nella rocca delle Caminate tra Predappio e Meldola, divenuta ben presto l’edificio simbolo della propaganda fascista e del mito del duce: acquistata e restaurata nel 1923 con un ‘Prestito Littorio’ da un comitato di cittadini, venne donata nel 1927 come residenza estiva a Mussolini che era nato nella vicina frazione di pianura di Dovia – trasformata proprio in quegli anni nella città nuova di Predappio sancendo il definitivo isolamento dell’antico castello predappiese sulla collina.
Durante la Seconda guerra mondiale non pochi castelli riconquistarono peraltro in forme nuove il loro antico ruolo militare, grazie alla loro posizione strategica e alla loro difendibilità.
Soprattutto dopo l’8 settembre diverse strutture, in particolare quelle situate nelle zone montane o nel cuore delle principali città, vennero occupate dall’esercito tedesco e utilizzate come centro dei comandi militari, basi logistiche, ospedali militari, campo di smistamento per prigionieri militari e civili – italiani o stranieri – o per gli ebrei destinati alla deportazione. Tra queste le cittadelle di Piacenza e di Parma, i castelli di Rezzanello, di Pellegrino Parmense e quello di Scipione a Salsomaggiore, il palazzo Rossi a Sasso Marconi, il castello di Bentivoglio, il castello Estense di Ferrara, le rocche di Riolo e Bertinoro, il castello di Rimini.
Aderente fino all’ultimo alla parabola del regime, la rocca mussoliniana delle Caminate ospitò nel settembre 1943 la prima riunione ministeriale della Repubblica Sociale Italiana per divenire poi luogo di prigionia e tortura di partigiani; semidistrutta dai bombardamenti del 1944, venne infine saccheggiata e devastata dalla popolazione dopo la Liberazione.
Numerosi furono gli edifici pesantemente danneggiati dai bombardamenti alleati, come avvenne a Ferrara, o che servirono come rifugio antiaereo o ricovero di sfollati come a Calendasco, Bagnara, Cesena e Longiano.
In diversi casi i castelli vennero occupati dai comandi partigiani, subendo gli attacchi di tedeschi e repubblichini. Sede di un comando della II divisione partigiana Piacenza, la celebre rocca di Olgisio venne attaccata per due volte dalle truppe tedesche che provocarono il crollo di parti dell’edificio, mentre il castello delle Carpinete, già quasi in rovina, fu oggetto nel 1944 di un attacco di artiglieria condotto dall’esercito tedesco, che sospettava fosse rifugio di partigiani. La rocca Meli Lupi fu teatro nel marzo 1945 dell’eccidio di Soragna, la fucilazione di cinque partigiani disposta per rappresaglia dal Comando Provinciale della XXVII Brigata Nera.
Romanzesca la vicenda di Lisignano, che la notte di San Silvestro del 1944 diede rifugio a un gruppetto di partigiani di ‘Giustizia e Libertà’ in fuga, dotati di armamenti pesanti; tra questi era il futuro storico Angelo del Boca, che sposò poi la figlia dei proprietari e raccontò la vicenda in alcuni suoi libri. Sede di un campo di prigionia per i soldati alleati, tra l’inverno del 1944 e la primavera del 1945 il castello di Montechiarugolo fu anche il rifugio segreto del figlio dei proprietari renitente alla leva repubblichina, il futuro regista Antonio Marchi, che filmò di nascosto lo scorrere delle stagioni nel castello, nel borgo e nella vallata, fino all’arrivo dei partigiani e delle truppe americane.
L’episodio più celebre vide protagonista il castello di Montefiorino, che nel 1944 – prima zona dell’Italia settentrionale liberata dalle forze partigiane – fu sede della breve ma importante esperienza di governo democratico dell’omonima Repubblica partigiana.